Apparato iconografico della Chiesetta di Sant’Adriano

I dipinti murali conservati all’interno dell’oratorio di Olgelasca danno testimonianza di alcune delle campagne decorative che hanno caratterizzato la storia dell’edificio. I dipinti si collocano in un arco cronologico tra il tardo Duecento e il 1497 circa, data leggibile dall’iscrizione che connota la rappresentazione di sant’Adriano nella specchiatura destra della zona dell’abside.

L’area absidale ospita vari soggetti: a sinistra, nel semitamburo, vi è la figura di un santo orante risalente al 1280 (o 1300 al più tardi), che è il dipinto murale più antico della chiesa; la specchiatura centrale, risalente intorno alla metà del XV secolo, rappresenta san Bernardino da Siena; a destra figurano sant’Adriano, del 1497, e san Sebastiano, del XIV secolo; nel semicatino absidale è presente la Trinità inserita all’interno della mandorla (simbolo di rinascita), affiancata dai quattro Viventi associati agli Evangelisti e dai santi Rocco e Sebastiano, rispettivamente a sinistra e a destra, il tutto datato alla seconda metà del XV secolo.

La parete settentrionale ha subito più di tutte l’azione distruttiva dell’umidità e l’unico dipinto murale superstite è una Madonna con Bambino risalente al primo Quattrocento. Sulla parete meridionale sono conservati una scena eucaristica coeva alla realizzazione dei dipinti di fine Quattrocento e le figure di due santi, san Tommaso e san Bovone, del tardo Trecento.

 

Il dipinto murale più antico della chiesa rappresenta un orante, come suggerito dalla postura frontale con le braccia attaccate al corpo, mentre gli avambracci si spostano davanti al petto permettendo la rotazione dei palmi verso l’esterno delle mani aperte. Indossa una tunica di colore rossastro stretta alla vita da una semplice fascia che funge da cintola; sovrappone un mantello anch’esso rosso-bruno e caratterizzato da inserti bianchi, quali il colletto tondo a collare e la ricca foderatura interna di vaio, che insieme ai calzari denotano l’appartenenza a un elevato lignaggio. Il volto è frontale, ieratico, incorniciato da capelli castani di media lunghezza raccolti dietro le orecchie. Sul viso un paio di baffetti e una corta barba, mentre un naso pronunciato si colloca tra due folte sopracciglia sotto le quali gli occhi grandi, aperti ma con uno sguardo rivolto al di là della realtà, campeggiano sulla pelle rosea.

Che si tratti di un santo è evidente dall’aureola intorno al capo, mentre il particolare che più interessa trova posto nella parte estremamente inferiore della pittura: si tratta di piccole fiammelle che lambiscono le punte dei piedi del personaggio, sicuramente simbolo di un evento connesso alla morte del medesimo. È proprio questo elemento che ha supportato la tesi dello studioso Oleg Zastrow (1987) a riconoscervi il santo titolare della chiesa, sant’Adriano martire di Nicomedia. Il rimando farebbe riferimento a un episodio in morte del pio cavaliere (e quindi di alto lignaggio per poter accedere a questa carica), quando dopo lo smembramento del suo corpo a colpi di martello, fu ordinato di bruciarne i resti, ma una pioggia miracolosa non permise che accadesse spegnendo le fiamme. L’episodio qui ricordato sarebbe proprio quello a cui alludono le lingue di fuoco ai suoi piedi, rendendoci lecito pensare che siano il simbolo iconografico del santo. Non potendo fare veri e propri confronti diretti con pitture coeve del medesimo soggetto (perché il culto di sant’Adriano non è mai stato particolarmente fervido in Italia) rimaniamo allo stadio ipotetico, tuttavia sembriamo essere sulla giusta strada.

La prima ipotesi di riconoscimento del personaggio era partita dalla possibilità che si trattasse di un apostolo, soprattutto a ragione della collocazione in cui è stato dipinto all’interno della chiesa: l’area absidale, di maggiore importanza in assoluto e che in epoca romanica era destinata a personaggi primari come apostoli e santi martiri. Tuttavia le caratteristiche evidenziate appena sopra hanno appurato l’erroneità di tale ipotesi: non solo le fiammelle sotto i piedi del personaggio sono un rimando al martirio, ma anche la ricca foggia degli abiti e la postura stessa dell’orante sono tendenzialmente esclusive di martiri e santi, non degli apostoli.

La mia opinione è favorevole a quella di Zastrow. Il motivo di tale posizione si basa sulla particolare collocazione della figura dell’orante nella zona absidale, di maggiore importanza, come ho già avuto modo di dire. L’orante, dunque, a mio avviso, trova giustificazione nell’essere identificato con sant’Adriano perché siccome è titolare della chiesa è lecito che occupi una posizione di così alto rilievo. Tengo a sottolineare che quanto detto deve considerarsi una teoria che si basa solo su quanto poco sopravvive dei dipinti murali attorno alla fine del Duecento della chiesa.

Infine un’ultima annotazione sul riquadro dell’orante è da segnalare nella cornice che lo inquadra, composta di una fascia alta e bianca, arricchita da losanghe alternate a coppie di perle di colore blu, serrata fra altre due fasce lievemente più strette e rossastre. La parte destra del dipinto murario è intatta (tranne nel bordo superiore a causa del rifacimento dell’abside in epoca rinascimentale), mentre quella sinistra è totalmente perduta – come del resto tutta la facciata nord – a causa dell’umidità. Non sappiamo cosa potesse esserci nella parte ormai rovinata affianco al santo, ma sicuramente si è trattato di un personaggio o di una scena inserita in una cornice analoga, come notiamo grossomodo per tutto il resto dell’apparato decorativo pervenutoci e che sembra essere uno stilema particolarmente amato in Lombardia, come evidenzia la sua ricorrenza in altre chiese della zona, fra gli esempi: San Fedele a Como e Santa Maria Hoè in provincia di Lecco, dell’avanzato XIII secolo.

Proprio l’impostazione della cornice, insieme al panneggio arcaizzante dell’orante, la foderatura di vaio e la forma del colletto della tunica riconducono l’opera a fine XIII secolo.

 

Se il presunto orante-sant’Adriano tardo duecentesco lascia ancora perplessi, quello situato oltre la terza monofora di destra del semitamburo absidale, al fianco di san Sebastiano, è certamente identificato.

Questo dipinto murario risulta essere il più tardo fra tutti quelli della zona absidale e il termine di realizzazione è il 1497, come recita l’iscrizione posta all’interno della cornice che lo inquadra.

Questo sant’Adriano si presenta come un giovane dai lineamenti femminei, il corpo asseconda la rotazione del volto di tre quarti inclinando lievemente le spalle e il busto, ma torna ad essere frontale nella parte inferiore del corpo. È riccamente vestito di un manto violaceo foderato e profilato; una giubba finemente ricamata con un motivo damascato nero su bianco copre il busto e, sotto, la veste color cachi – damascata con motivi rossicci – è lasciata intravedere oltre l’allacciatura anteriore della giubba e del mantello. Ai piedi calzari speronati si stagliano su un fondo texturizzato come se si trattasse di una pavimentazione a ciottoli. Nella sua mano destra regge la spada tenendo l’elsa verso l’alto e la lama rivolta verso il basso, in posizione di riposo, mentre nella sinistra regge un rametto di palma, simbolo del martirio.

Il volto è quello di un fanciullo imberbe; le piccole labbra sono rosse e le gote rosate. Il naso è meno marcato rispetto all’orante e gli occhi castani sono direttamente rivolti allo spettatore. I capelli sono di media lunghezza, divisi in ciocche lumeggiate e scalate. La scriminatura centrale lascia spazio a una gemma tonda di rubino dalla quale dipartono due filari di perle che incorniciano la testa morbidamente. L’aureola a coronamento del capo, insieme alla palma del martirio, indicano la sua santità.

Il breve filatterio che si staglia sullo sfondo rosso in cui alloggia il santo reca l’iscrizione – entro due righe orizzontali di preparazione ancora visibili – con il suo nome, pertanto siamo sicuri della sua identificazione. Sant’Adriano fu un cavaliere convertito, martirizzato con lo smembramento degli arti a colpi di martello e i cui resti avrebbero dovuto essere bruciati se una pioggia miracolosa non avesse spento il fuoco. Da ciò si riconoscono gli elementi: il ricchissimo abbigliamento e il filare di perle denotano l’appartenenza all’alto lignaggio, condizione necessaria all’accesso nella classe dei milites, come dimostrano la spada e i calzari speronati.

Se consideriamo attendibile l’identificazione del personaggio orante con il martire di Nicomedia, la duplice presenza di sant’Adriano nel semitamburo absidale (a sinistra maturo-orante e a destra giovane-cavaliere) è chiarita prendendo atto della commissione di una nuova decorazione della chiesa realizzata in epoca rinascimentale, nel lasso di tempo tra il 1450 circa e il 1497. Il progetto di rinnovamento aveva previsto la scialbatura (ossia la copertura con intonaco bianco) dei dipinti murari precedenti per lasciare posto al nuovo ciclo decorativo del quale rimane testimonianza nelle pitture del semicatino absidale, nell’Adriano della specchiatura destra del semitamburo e nella scena eucaristica della parete meridionale. Traccia di quanto detto è evidente sul margine sinistro della specchiatura raffigurante san Sebastiano a destra del semitamburo absidale (datata ai primissimi anni del Quattrocento), dove è evidente la sovrapposizione dello strato di intonaco su cui è dipinto sant’Adriano cavaliere. Seguita la deduzione che originariamente non dovessero figurare due immagini del santo titolare nel medesimo spazio absidale, episodio che ha luogo recentemente a causa della perdita dell’apparato decorativo coevo al 1497 che doveva ricoprire la figura dell’orante e tutti gli altri dipinti murali precedenti.

 

Fino ad ora abbiamo analizzato gli antipodi cronologici delle raffigurazioni della zona absidale, ora il discorso continua soffermandosi sulla descrizione degli altri due personaggi a completamento del semitamburo: san Bernardino e san Sebastiano.

San Bernardino da Siena nasce intorno al 1380 a Massa Marittima (distretto della Repubblica di Siena), rimane orfano di entrambi i genitori ed è accudito dagli zii paterni a Siena. Presto decide di dedicarsi alla vita spirituale e nel 1402 entra a far parte dell’Ordine francescano. Intraprende il cammino di predicazioni apostoliche in tutta Italia finché muore presso L’Aquila nel 1444. Nel 1450 riceve la canonizzazione da Niccolò V e pochi anni dopo gli è riconosciuto il titolo di Dottore della Chiesa.

Tipico della sua iconografia è l’uniformità dei caratteri di rappresentazione applicati dagli artisti nelle varie epoche. Il ritratto è sempre maturo, magro, emaciato a causa dei digiuni e delle penitenze, secondo le descrizioni che ne diedero contemporanei e devoti. In queste fattezze compare nella specchiatura centrale del semitamburo absidale della chiesa. All’interno della duplice cornice dal profilo più esterno in rosso e interno in bianco, su un fondale rossastro si staglia la figura di san Bernardino da Siena. L’iscrizione col suo nome ne accerta l’identificazione, nonostante fosse già abbastanza connotato dagli attributi iconografici delle tre mitre e di quello che doveva essere il trigramma di Cristo nella sua mano destra, oggi del tutto perso. Il ritratto del santo purtroppo non è in buone condizioni, risulta per lo più illeggibile nella parte inferiore e completamente persa è la superficie pittorica dell’abbondate saio francescano che indossa e del quale non resta che un accenno nelle ampie pieghe che coprivano sul suo corpo.

Le luce e le ombre solcano il suo viso accentuando la pelle ammorbidita e scarna. Piccoli occhi castani, naso sottile e bocca stretta connotano un’espressione provata ma benevola del suo volto pallido. La testa canuta è circondata dall’aureola.

La mano sinistra regge un libro aperto e mostrato allo spettatore, purtroppo la trascrizione è ormai perduta ma è probabile che fosse una strofa dell’antifona che egli era solito recitare: “Manifestavi nomen tuum homibus” (Giovanni, XVII, 6). Nella mano destra reggeva il trigramma di Cristo, meglio conosciuto come “IHS”, formato dalle lettere iniziali del nome di Gesù in latino (Yesus Hominum Salvator). Al termine delle sue prediche Bernardino soleva mostrare ai fedeli una tavoletta sulla quale erano incise le tre lettere, attorniate da un cerchio con raggi fiammeggianti. La sua introduzione risale grossomodo al 1425, quando egli prestava servizio a Bologna. Nel secondo decennio del Quattrocento vigeva l’usanza di marcare qualsiasi cosa con il simbolo della propria famiglia o della propria autorità; è in occasione dei suoi primi anni di apostolato che Bernardino, seguendo tale consuetudine, introduce il trigramma come simbolo di massima ispirazione spirituale, contrapponendosi alla materialistica rappresentazione di potere dei signorotti. Il successo fu tale da suscitare  tra gli umanisti e i teologi il sospetto di una malsana innovazione del culto, al quale più tardi si associarono le opposizioni personali dei suoi nemici. Per tre volte è intentata un’accusa contro di lui dalla quale è sempre prosciolto e, anzi, gli fruttò l’offerta ai vescovadi di Siena, Ferrara e Urbino, da lui rifiutati e rappresentati dall’attributo delle tre mitre.

Ad accompagnare la raffigurazione del santo vi è un’altra iscrizione molto sbiadita e lacunosa che sembra riportare la data MCCCCLII, 1452; se si considera corretta la sua decifrazione vuol dire che avremmo trovato un termine ante quem per la sua realizzazione, collocata a otto anni dalla morte e a soli due anni dalla canonizzazione (avvenuta nel 1450).

 

All’estrema destra del semitamburo absidale rimane l’ultimo personaggio di cui discorrere. È san Sebastiano, come recita quanto rimane dell’iscrizione posta accanto al suo capo, sulla sinistra, con le sole lettere “SEBA”.

La rappresentazione si colloca verso i primissimi anni del Quattrocento, o più in generale, all’interno del lasso di tempo fra il 1380 e il 1420-1430.

Il santo dimostra di appartenere a un elevato lignaggio indossando una veste grigiastra corta fino al ginocchio; al di sotto si profilano degli alti calzari, mentre le mani sono guantate. La cintola per reggere il fodero della spada si adagia sui fianchi; le spalle sono coperte da un mantello rosso foderato di bianco e con una decorazione a reticolo dorata; si allaccia sul petto e lo scollo tondo è segnato da un orlo di colore scuro. Il volto, dalla particolare forma ellittica accentuata, è frontale e piatto. L’espressione è benevola: sorride lievemente con la bocca e con gli occhi, chiari come il colore azzurro del fondo su cui si staglia la figura, il volto liscio e pasciuto è circondato dall’aureola.

Nella sua mano destra riconosciamo due frecce a memoria del martirio subito, mentre la spada rivolta verso il basso, sulla cui elsa poggia la mano sinistra, rammenta l’origine milizia.

La Passio S. Sebastiani, composta a metà V secolo (quando il suo culto era già fervente) da uno scrittore romano anonimo, fornisce informazioni sul santo: Sebastiano è un abile cavaliere che riesce a raggiungere la carica di guardia personale degli imperatori Diocleziano e Massimiano. Grazie a questo incarico può dedicarsi al sostegno dei cristiani in carcere e alla propaganda religiosa fra la nobiltà. L’efficacia della sua attività insospettisce il governo; è sottoposto a giudizio imperiale e riceve la condanna a morte tramite il supplizio delle frecce. Denudato e legato a un palo – dice la Passio – è colpito da tanti dardi sino a sembrare un “riccio”. Il corpo è abbandonato sul luogo ma, di notte, la vedova del convertito e martire Castulo, giunta per recuperare la salma insieme ad altri cristiani, si accorge che Sebastiano è ancora miracolosamente vivo. Riuscito a rimettersi in sesto affronta nuovamente gli imperatori. Subisce la flagellazione nell’ippodromo del Palatino e conclude la sua vita da martire.

L’attributo delle frecce in memoria del martirio, come reca il Sebastiano di Olgelasca, compare dal X secolo in avanti. San Sebastiano condivide fino al XVI secolo la fama di taumaturgo e protettore dalla peste insieme a sant’Antonio, san Cristoforo e san Rocco.

 

Culmine decorativo della zona absidale è il semicatino. Un’iscrizione correva lungo il margine inferiore ma purtroppo risulta ormai illeggibile; tuttavia è possibile risalire a una datazione dell’opera tra il 1452 (data iscritta nel san Bernardino) e il 1497 (iscrizione del sant’Adriano di destra). Con maggiore precisione la raffigurazione non sembra risalire propriamente al 1497, ma piuttosto a un periodo precedente di qualche anno prima.

La decorazione si presenta molto deteriorata e parzialmente perduta a causa di diversi fattori, dall’umidità ai rimaneggiamenti subiti dalla chiesa: una profonda fenditura, ad esempio, solcava longitudinalmente l’area centrale ove figura la Trinità in mandorla. Non tutto però è perduto, infatti nei punti di caduta del colore sono ancora evidenti le tracce in nero della sinopia (ossia il disegno sulla parete) originaria, così da permetterci di verificare la ricostruzione grafica di tutta la composizione.

Come già detto al centro campeggia la Trinità inserita all’interno dell’imago clipeata (la mandorla); Dio dal volto molto rovinato sorregge a braccia aperte la croce sulla quale Gesù è ancora sofferente. L’aureola corona il capo del Padre e si arricchisce di una decorazione a raggiera. Gesù è pressoché leggibile nella sua interezza, solo la parte inferiore delle gambe si dissolve a causa della caduta del manto pittorico. Il capo nimbato è reclinato verso il basso; i capelli castani e mossi gli ricadono sulle spalle; gli occhi sono chiusi. Dai chiodi delle mani sprizza ancora il sangue che scorre lungo le braccia, mentre la ferita al costato è più contenuta.

La figura della colomba, ormai quasi totalmente scomparsa, completa il quadro trinitario e funge da elemento di congiunzione tra la testa del Padre e del Figlio. Per avere un’idea di come si presentasse in origine il dipinto murario è possibile ricorrere all’esempio della Santissima Trinità raffigurata nella parete di fondo del presbiterio dell’omonima chiesa di Casacca a Lezzeno (CO), in cui figura il medesimo schema trinitario con la sola assenza della mandorla e datato a fine Quattrocento.

I quattro Viventi circondano la mandorla: in alto a sinistra campeggia l’aquila di Giovanni; in basso a sinistra il toro di Luca; in alto a destra l’angelo di Matteo e in basso a destra il leone di Marco. Queste immagini sono ricche di ulteriori implicazioni teologiche che da un lato, in presenza del libro a connotazione di ognuno degli esseri, rimandano alla tradizione definita alla fine del IV secolo da san Gerolamo di identificazione degli Evangelisti con i quattro Viventi ripresi da Apocalisse 4, 6-11, cosparsi di occhi, alati, osannanti l’Uno in trono insieme ai ventiquattro Vegliardi; dall’altro ricordano la visione di Ezechiele 1, 5-20 di quattro esseri tetramorfi che rivestono il ruolo di ruote del carro di Dio per divulgare la Parola ai quattro angoli del mondo, come le figure del dipinto murario occupano i quattro angoli della composizione.

Infine, agli estremi del semicatino, si stagliano le figure di san Rocco a sinistra e di san Sebastiano a destra.

Il primo dei due santi è raffigurato con il volto ruotato di tre quarti; indossa una veste color cachi corta fino alla vita e dei calzari alti. Sopra, un mantello violaceo copre le spalle e si allaccia sul petto dove lo scollo tondo è caratterizzato da una sorta di largo colletto dello stesso colore dei calzari e dal profilo ondulato. Il viso è incorniciato da capelli color rame di media lunghezza con scriminatura centrale; l’aureola a decorazione raggiata all’interno circonda il suo capo. L’espressione concentrata e direttamente rivolta allo spettatore solca il viso emaciato, pallido e violaceo come quello di un ammalato di peste. Le gote sono scarnificate, le borse sotto gli occhi sono accentuate dall’ombra, mentre la bocca è quasi nascosta da due baffetti radi rivolti verso il basso e dalla barba ramata lasciata più lunga sul mento. Nella sua mano sinistra regge il bordone da pellegrino, ossia un bastone dalla sommità arcuata alla quale può essere appesa una piccola borraccia che distingue i pellegrini dai semplici passanti; se, come in questo caso, è rettilineo con la parte superiore scandita da due “nodi” allora è più corretto chiamarlo bastone del pellegrino piuttosto che bordone, ma il significato è il medesimo. La mano destra è impegnata a indicare la piaga sulla coscia a ricordo della peste di cui fu vittima, ma anche della sua guarigione e della funzione taumaturgica che ricopre. La gamba malata è piegata in avanti e scoperta abbassando il calzare, mentre quella destra genuflette, assumendo la posizione di devozione rivolta alla Trinità.

La figura di san Sebastiano a destra è molto rovinata, soprattutto il volto non è più leggibile e si distinguono solo i capelli biondi di media lunghezza come nell’esempio trecentesco.

La posa assunta dal suo corpo è analoga e speculare a quella di san Rocco; nella sua mano sinistra tiene la spada con la lama rivolta verso il basso, mentre nella destra stringe un fascio di frecce a ricordo del martirio (si noti che gli attributi corrispondono a quelli del suo precedente trecentesco della parete sottostante).

Davanti ai due santi si profilano coppie di cartigli che fanno riferimento ai Viventi; tali iscrizioni sono per lo più ormai illeggibili, fatta eccezione per quella corrispondente all’Aquila-Giovanni.

 

Nella parete settentrionale il quadro staccato della Madonna con il Bambino resta l’unica testimonianza superstite, datata ai primi decenni del Quattrocento, sicuramente non oltre la metà del secolo.

La Vergine, inquadrata dalla consueta doppia cornice bianca e rossa che ricorre in tutte le rappresentazioni della chiesa, siede su un trono visibile a malapena perché nascosto sotto l’abbondante veste ricca e damascata, indagata con dovizia di particolari. Sulla sua testa poggia una corona e il viso è caratterizzato da lineamenti sottili e delicati che ne evidenziano la fanciullezza pur mantenendo un’espressione di serietà. Sul grembo siede il Bambino, vestito di rosso e di cui si è completamente cancellato il volto. Con la sua mano destra regge un cardellino, simbolo della Passione, mentre con la sinistra accarezza il seno nudo della madre dalla quale riceve il latte.

Il soggetto ha sempre goduto di un fervido interesse e culto, tanto che è possibile riconoscerlo in rappresentazioni dal Duecento sino al Novecento. Certo è che l’iconografia può essere compresa solo tenendo ben a mente il contesto sociale in cui nasce: un contesto in cui le famiglie contano numerosi figli ma anche molte morti infantili a causa proprio della mancanza di latte per i loro primissimi giorni di vita; solo così la devozione alla Madonna del latte, protettrice delle nascite ed emblema della sacralità della vita, acquista il giusto senso. L’unica menzione dell’allattamento di Gesù al seno di Maria nei Vangeli canonici è contenuta in Luca 11, 27-28; per il resto solo i testi apocrifi proferiscono parola a riguardo: nel Protovangelo di Giacomo è narrata la nascita di Gesù nella grotta adombrata da una nuvola luminosa, attraverso la quale, la levatrice condotta da Giuseppe scorge il Bambino che si nutre dal seno della Madre. Ancora, nel Vangelo dell’infanzia Arabo siriaco 3, 1 è scritto:

 

E così dopo il tramonto del sole, la vecchia giunse alla grotta, e con lei Giuseppe, e ambedue entrarono. Ed ecco, essa era piena di luci, più belle che il fulgore di lucerne e di torce e più splendenti del chiarore solare. Il bambino, avvolto nelle fasce e adagiato nella mangiatoia, succhiava il latte da santa Maria, sua madre”.

 

Nel Vangelo dell’infanzia armeno 9, 2 è presentata la venuta di Eva che, approssimatasi verso la madre con il figlio, vede quando: “[…] il bambino si levò per prendere il seno della madre, si saziò di latte, poi ritornò al suo posto e si mise a sedere”.

La Virgo lactans è la rappresentazione della Madonna colta nell’atto di allattare a seno scoperto il Figlio, ma è possibile riconoscerla anche in presenza di santi o particolari personaggi legati alla religione cristiana mentre ricevono il latte della sapienza (Isaia) sgorgante dal seno della Vergine, rappresentato mediante un dignitoso getto continuo oppure singole gocce. Nel primo caso l’opera ha carattere intimo e materno, volto a sottolineare la natura umana di Gesù e la vicinanza alla condizione dei suoi fedeli; la Madonna del latte è l’immagine della vita stessa; Maria è proclamata novella Eva attorno al IV-V secolo, perché, guidata dall’angelo, genera chi sconfigge la morte e riapre le porte del paradiso, chiuse dal peccato della prima donna. Nel secondo caso lo scopo è far conoscere la benevolenza di Maria nei confronti di un personaggio che vuole essere mostrato ai fedeli come modello spirituale da seguire. Alla base dell’origine visiva dell’iconografia vi è quella della dea Iside allattante il figlio Horus, proveniente dall’Antico Egitto, secondo la consuetudine del cristianesimo delle origini di appropriarsi di preesistenze pagane, alle quali il popolo era già abituato, per veicolare i propri messaggi.

Solo a partire dal XIII secolo la Madonna col Bambino diventa un’iconografia autonoma, in cui la Vergine assume il carattere di mediatrice.

Tornando al dipinto murario, notiamo la cattiva conservazione a causa dell’umidità che ha comportato la caduta del manto pittorico, solo grazie ai recenti restauri l’opera è stata staccata e adagiata al muro nella medesima posizione, così da limitare i danni dovuti all’umidità.

Un’ultima osservazione riguarda due carrucoline che affiancavano il dipinto murario nella parte sommitale e che permettevano di sollevare o calare un drappo posto davanti all’immagine durante particolari occasioni.

Venendo a conoscenza di questo particolare mi è tornata a mente una peculiare cerimonia introdotta a metà de l’XI secolo dal santuario delle Blacherne di Costantinopoli, il più antico dei tre santuari dedicati alla Theotokos, la Madre di Dio. Si tratta del “miracolo consueto” e consiste nel sollevamento “miracoloso” di un velo, posto a celare l’immagine della Vergine, durante un momento preciso della cerimonia religiosa. Tale rivelazione ha lo scopo di ricondurre all’Incarnazione e alla Crocifissione: la prima trova il suo parallelo in Cristo che si incarna nel seno della Vergine e dà inizio al piano salvifico per gli uomini, mentre alla Crocifissione è collegata la lacerazione del velo del Tempio e l’abbandono di Cristo del corpo umano sulla croce per manifestarsi come salvatore divino. Tutto è comprensibile se riferito al concetto di visibilità di tale piano: la divinità invisibile ai fedeli, durante lo svelamento dell’immagine di culto, entra nella sua icona e si rende manifesta in essa attraverso un mutamento fisico dell’immagine percepito solo dal fedele. Alla luce di questa considerazione credo che anche al dipinto di Olgelasca possa essere stata applicata la medesima pratica.

 

Centrale nella parete meridionale è il dipinto murario di celebrazione eucaristica, datato ancora una volta entro la fine del XV secolo.

Oleg Zastrow ha ipotizzato che si tratti del Miracolo della Messa di Gregorio I Magno, papa dal 590 al 604, Dottore della Chiesa e santo.

È negli anni di apostolato che si inserisce il miracolo della Santa Messa, precisamente nel 595. Mentre papa Gregorio I celebra la liturgia nell’antica chiesa dedicata a San Pietro a Roma, al momento del rito eucaristico una donna scoppia in una fragorosa risata di oltraggio al Signore. A quel tempo vigeva l’usanza di utilizzare come pane consacrato quello preparato dai fedeli; la donna, incredula che quel pane fosse il corpo di Cristo perché era stata lei stessa a prepararlo era scoppiata a ridere. Il papa prega il Signore affinché ella si ravveda; in quel momento il pezzo di pane che reggeva nelle mani tramuta in carne e sangue. La donna, assistendo al miracolo, si inginocchia e piange.

Quello della Messa è uno dei temi più usuali di rappresentazione di Gregorio I e in merito Luigi Capponi nelle sue Storie di Gregorio Magno, scolpite negli anni Ottanta del Quattrocento sul paliotto per la chiesa di San Gregorio al Celio a Roma, ripropone la scena inserendovi le anime del Purgatorio liberate che, come vuole la tradizione, si profilarono dietro il pontefice al momento del miracolo. Da questo esempio e dalla narrazione dell’episodio all’interno della biografia del santo, sono giunta a dissociarmi dal riconoscere nel dipinto di Olgelasca il Miracolo della Messa di Gregorio Magno,  a causa della mancanza di tutti quegli elementi che avrebbero dovuto connotare la scena per distinguerla da una semplice celebrazione eucaristica, quale sembra essere quella della chiesa di Olgelasca.

Stagliata su fondo blu, all’interno di una cornice dalle dimensioni quasi quadrate e in posizione raso terra, nella pittura muraria della chiesetta di Sant’Adriano emerge la figura dell’officiante, ritratto di profilo, tonsurato, nimbato, con indosso i paramenti della messa e nell’atto di elevare l’ostia verso l’alto. Dietro di lui un accolito regge con la mano sinistra la pianeta purpurea, secondo i dettami della norma liturgica, mentre con la destra regge il cero acceso. Il volto è ruotato di tre quarti, guarda l’azione del primo e il capo, ancora nimbato, è tonsurato; indossa una semplice tunica bianca e si inginocchia in segno di devozione. Davanti al sacerdote è profilato l’altare a sezione quadrilatera, protetto da una stoffa ricamata. Sulla superficie d’appoggio distinguiamo il calice, la patena, la croce d’altare, un libro rilegato e chiuso da fermagli e un altro aperto, recante su due pagine la formula del triplice Sanctus pronunciata dall’officiante durante il rito eucaristico.

Osservando attentamente la parte centrale della composizione, sullo sfondo si notano delle incisioni che formano alcune sagome: un portale ogivale, uccellini, una croce astile e archeggiature. Sono posteriori rispetto alla realizzazione dell’opera e non sono altro che espressioni della popolare quotidiana frequentazione della chiesa.

 

Il viaggio nella storia della chiesa di Sant’Adriano si conclude con l’ultimo dipinto murario superstite della parete meridionale, situato in prossimità dell’angolo di adiacenza tra il lato sud e la parete occidentale di ingresso.

Stanti e frontali si delineano le sagome dei due personaggi coevi, risalenti al tardo Trecento, attorno al 1370 circa. Si stagliano su fondo blu nella parte superiore, mentre una sorta di cortina cela la parte inferiore. La duplice cornice bianca e rossa è costante anche in questo caso.

A partire da destra l’iscrizione posta tra i due personaggi, in posizione centrale, identifica san Bovone, altrimenti poco distinguibile dall’iconografia dei vescovi in generale.

Bovone è il santo patrono di Voghera, nato in Provenza a metà del X secolo. In gioventù riveste la carica di cavaliere e combatte i Mori che compivano scorrerie nella sua terra natia. A seguito della vittoria si dedica a vita ascetica e alla penitenza, raggiungendo un elevato grado di spiritualità di cui dà prova accorando il proprio perdono all’assassino del fratello. Muore compiendo il viaggio di pellegrinaggio alla tomba dell’apostolo Pietro, come era solito fare ogni anno. A renderlo celebre è la fama di taumaturgo.

Iconograficamente parlando non è connotato da simboli identificativi che lo distinguano. Come tutti i vescovi veste paramenti episcopali sontuosamente ricamati, indossa la mitria sul capo, regge il pastorale e reca un volume chiuso nelle mani guantate. I lineamenti del volto sono sottili, mentre capelli, barba e baffi bianchi incorniciano il viso. La mano destra è nel gesto della parola.

Siamo di fronte a un santo non molto conosciuto ma del quale ritroviamo rappresentazioni coeve: nel Museo di Santo Stefano, a Bologna, è conservata una statua lignea trecentesca raffigurante il santo come a Olgelasca; o ancora nell’affresco del 1421 della chiesa di Sant’Abbondio a San Bonifacio a Verona prende le sembianze di un nobile giovane cavaliere dai lunghi capelli.

Al suo fianco si profila una misteriosa figura, originariamente connotata dalla propria iscrizione, che oggi non ci lascia vedere che la sola lettera “A”. Si tratta di un giovane nimbato, dai capelli lunghi e biondi, il volto ha un’espressione amichevole e cordiale, una corta barbetta ne delimita il profilo. Indossa una lunga tunica rossa ricamata all’altezza del collo e che lascia scoperti i piedi nudi; sopra, il mantello giallo, foderato di verde, è portato alla romana: la spalla destra e parte del busto sono lasciati liberi mentre la parte sinistra è coperta. La sua mano destra sostiene una cintura scura e sottile che si srotola verticalmente in tutta la sua lunghezza, mentre nella sinistra regge un libro chiuso.

Gli attributi e le caratteristiche escludono che sia un martire e un santo. La semplice veste, i piedi nudi, la postura e il libro denotano l’identità di apostolo, ma è soprattutto la cintura a fornire l’elemento chiave di riconoscimento: si tratta di san Tommaso Didimo, apostolo del quale è qui suggerito l’episodio del Sacro Cingolo della Vergine, narrato nel testo apocrifo Transitus Mariae dello Pseudo Giuseppe di Arimatea. La tradizione vuole che Tommaso “Didimo”, ovvero “gemello” di Cristo, a ragione delle tre parole che Egli rivela esclusivamente all’apostolo e che contengono un messaggio talmente forte da non poter essere pronunciate nuovamente, non creda all’assunzione della Vergine al cielo e che ella gli donò la cintola con la quale gli apostoli l’avevano vestita in morte come prova. La reliquia della Cintura di Maria è venerata nella Cappella del Sacro Cingolo del Duomo di Prato e si presenta come una semplice sottile striscia di stoffa.

È doveroso chiarire che il san Tommaso in questione non è altri che il san Tommaso spesso nominato nei Vangeli canonici, che subì il martirio in India predicando il messaggio di Dio e che è più comunemente ricordato in merito all’incredulità nei confronti della resurrezione di Cristo, che gli comparve otto giorni dopo lasciandosi tastare la ferita sul costato (Giovanni 20, 26-29).

La collocazione cronologica dei due santi risale attorno al 1370 poiché tipici di questo periodo sono i panneggi volumetrici (soprattutto visibili nella tunica di Tommaso), il doppio sfondo, di un blu tendente al verde chiaro inferiormente e scuro superiormente, e, in particolare, i piedi nudi di Tommaso, grandi, delineati da un profilo marcato e presentati con una trattazione tipicamente tardo trecentesca.

 

I dipinti murali di Olgelasca appartengono a un apparato decorativo molto più vasto di cui non possiamo dire altro se non suggerire delle supposizioni.

In merito alla cornice rossa e bianca che caratterizza tutte le pitture superstiti all’interno della chiesa Oleg Zastrow ha osservato una peculiarità: se idealmente si prolunga il margine inferiore della cornice del dipinto murario con i santi Tommaso e Bovone verso est si nota come giunga a combaciare con quello superiore della scena eucaristica. Ciò che se ne può dedurre è che forse la chiesa era interamente decorata, secondo un progetto che prevedeva la scansione delle scene su due registri sovrapposti.

É poi emerso che in epoca rinascimentale è stato approntato un nuovo progetto di decorazione muraria che ha coperto quello precedente ed è evidente sul margine destro dello strato di intonaco del sant’Adriano cavaliere, sovrapposto al dipinto del san Sebastiano trecentesco. È probabile che i dipinti murari si estendessero per tutta la chiesa perché le superfici che oggi vediamo bianche e prive di decorazione avrebbero potuto contenere perfettamente ulteriori scene delle medesime dimensioni di quelle superstiti.

Le pitture di Olgelasca rivestono un ruolo importante nello studio artistico del nostro territorio; nonostante siano quasi nascoste in una chiesa immersa nel verde e poco visibile ai passanti, il repertorio che offrono è di squisita qualità, oltre che indice di scelte iconografiche inconsuete rispetto alle più tipiche pitture devote di epoca rinascimentale: basti pensare a sant’Adriano o a san Bovone, poco conosciuti e poco venerati nel comasco. Va inoltre sottolineata – ricordando che si tratta di un’ipotesi in quanto non conosciamo cosa altro fosse rappresentato – la predilezione di santi nel contempo nobili, guerrieri e martiri come protagonisti del ciclo pittorico: i già menzionati Adriano e Bovone, Sebastiano, Rocco, sono tutti di origine milizia, alla stregua di san Vittore; tutto ciò, infatti, trova spiegazione nel committente: non un ente locale che abbia necessità di contenere le spese e debba sottostare a più alte autorità, ma il potente monastero benedettino femminile di San Vittore a Meda, detto “la Sistina della Brianza”, libero di affrontare autonomamente la progettazione e i costi delle proprie iniziative.

 

Anna Civello

 

 

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